Cosenza pamoja Tanzania. Quarta tappa. Domenica 04.06.2017. Alla ricerca del container perduto

Ci vorrebbe la poesia di mio fratello Franco e della sua nipotina, mia figlia Maya, per descrivere la meraviglia di questi luoghi e dell’incontro con le persone che li abitano.
Sabato mattina ci alziamo determinati a recuperare il container. Tre giorni fa lo abbiamo lasciato indietro. Adesso abbiamo il sospetto che ce lo vogliano rubare. Contattato l’autista, il suo telefono risponde a singhiozzo, continua a darci mezze verità che somigliano sempre più a bugie. Se il carico sparisse, non ce lo perdoneremmo. All’interno sono custoditi i doni e i sacrifici di centinaia di persone. E per noi, in quanto meridionali, farci fregare un bene così voluminoso diverrebbe una figuraccia doppia.
Allora ci rimettiamo in viaggio, ripercorriamo la strada a ritroso. Con noi, gli operai impegnati nel cantiere di Isakalilo, che hanno chiesto di accompagnarci. Sono un gruppo di ragazzi molto affiatati, cento per cento tanzaniani mhehe, non coreografici come i guerrieri masai, però altrettanto determinati. Ci infiliamo tutti insieme nel Dalla Dalla ed è subito trasferta. Obiettivo: recuperare il container perduto. Durante il tragitto, in un vortice di curve che scollinano, incrociamo colonne di camion, alcuni dei quali coricati a bordo carreggiata, bloccati dall’ardua salita. Speriamo che in mezzo a loro ci sia anche il nostro. Ma restiamo delusi. Quindi procediamo verso la vallata, viaggiando per più di due ore. Sui due lati, gruppi di grosse scimmie tentano di sgraffignare cibarie ai mezzi di passaggio. Jackson, uno degli amici che ci accompagnano, mi racconta che qualche anno fa lungo questa strada si è ribaltato un tir carico di alcolici, e le scimmie si sono lanciate a bere dalle bottiglie rotte. Per qualche giorno, l’intero tratto è stato in balia di bestiole ubriache e moleste. Dopo un’altra mezzoretta di foresta, giungiamo in una pianura puntellata da casette in fango. Dietro improvvisate bancarelle, ambulanti bambini vendono scaglie di baobab, sacchetti di arachidi bollite e tostate. Da lontano, adagiato in una piazzola di servizio, scorgiamo un profilo familiare. È lui: il tir!!! La motrice ha la testa chinata in avanti. Uno dei due autisti riposa su una panchina. Non mentiva al telefono: un guasto al motore lo tiene bloccato qui da tre giorni, ma lui sapeva che con questo mezzo non sarebbe arrivato lontano. E ne erano consapevoli anche la Caritas, che lo ha preso a noleggio, e il suo padroncino nell’atto di affidarglielo. Sospiriamo. Qui come ovunque, “così vanno le cose”. I nostri amici operai infuriati circondano lui e il suo collega, chiedono spiegazioni a muso duro, vogliono capire come mai alla partenza i suoi capi si siano rifiutati di consegnarci copia dei documenti di viaggio. Poi la tensione si stempera e insieme provano a riparare il motore. Antonio di’ Bianchi, che di camion ne capisce, mi spiega che stanno tentando di rattoppare il bocchettone del radiatore con una bottiglia di plastica e una vecchia camera d’aria riciclata dalla ruota di un altro camion.
Guidate dalla condizione di necessità, mani esperte modellano, adattano reperti moderni, piegandoli al funzionamento della macchina. L’operazione dura più di un’ora. E il prodigio si compie, il camion riparte, stavolta scortato da noi che non lo perdiamo più di vista. Ma prima abbiamo il tempo di festeggiare il compleanno di Caterina, sul ciglio della strada, insieme ai bambini usciti dai tetti di paglia.

Rientrando verso Iringa, gustiamo le pannocchie arrostite più buone del mondo. Ci ipnotizza l’acrobatica modalità con cui vengono spacciate. In questo chilometro di strada in ripida salita, i camion non possono fermarsi: rischierebbero di spaccare i freni. Allora i venditori li inseguono, saltano a bordo dei tir in corsa e lanciano le pannocchie nella cabina. Gli autisti pagano scaraventando le monete dal finestrino.

Domenica mattina per noi è davvero giorno di festa… e di duro lavoro. C’è ancora Venere lucifera nel cielo nero bluastro quando anticipiamo l’alba per scaricare i materiali in un magazzino d’appoggio della ONG “Call Africa”. Formiamo la consueta catena umana per svuotare il container e liberarne il contenuto dall’abbraccio col camion malato.

Nei prossimi giorni, i materiali rimanenti saranno trasportati su furgoni a Migoli e Dodoma. Qui a Iringa invece, oltre a strumentazioni riabilitative, medicinali e alimenti, agli amici di “Sambamba” consegniamo banchi, sedie e materiali didattici che renderanno operativa l’aula “Gigi Marulla” nella nascente scuola di Isakalilo.

Frattanto all’esterno del cortile si sono radunati tanti bambini incuriositi. Giocano con una palla autocostruita, realizzata con sacchetti di plastica, carta e spago.
Distribuiamo palloni di cuoio e divise da calcio. Impazziscono dalla gioia e ci regalano palleggi, piroette, ruote acrobatiche. Vorremmo restare a giocare con loro, ma bisogna rimettersi in viaggio. In qualche modo, abbiamo dato sostanza anche quaggiù al rito della duminica du palluni. Così, mentre a Cosenza migliaia di lupi si apprestano a invadere lo stadio che consideriamo la nostra casa, a migliaia di chilometri anche noi abbiamo l’impressione di cantare insieme a loro nel “Gigi Marulla”.
Nel pomeriggio ci trasferiamo di nuovo a Morogoro, dove domani i nostri compagni riprenderanno il lavoro. Ciccio di ‘llà, che si ferma qui per altre 24 ore, preparerà le pizze nel forno che abbiamo consegnato all’inizio della settimana scorsa. Noi ripartiremo. In serata arriviamo nel college “San Gaspare” dove pernottiamo. Il luogo appare cupo di notte. Ma alle primissime luci del mattino, dalla chiesetta che si staglia nel convento, giovani voci di frati novizi intonano fulgidi canti. E il chiostro si riempie di vita.
Poco dopo, in un altro quartiere di Morogoro, visitiamo la scuola secondaria “Alfa”, fondata da padre Riccardo Riccioni, e conosciamo due suoi collaboratori, Manuel e Mara, insieme ai loro meraviglioso bambini. All’esperienza di questa scuola dedicheremo ampio spazio nel video che realizzeremo al ritorno. Ma ci sono bastati pochi minuti di incontro per capire quanta energia generatrice sprigionino persone come queste. Hanno scelto di incarnare messaggi e principi che nel nostro mondo rimangono spesso vacue parole d’ordine. La bicicletta di padre Riccardo, i suoi piedi nudi, testimoniano che esiste ancora un’umanità impegnata a vivere il presente in modo solidale, coerente, autentico.
Claudio Dionesalvi

(continua)

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