L’onanismo dell’indifferenza

Tre anni fa mi trovavo con “La Terra di Piero” in Tanzania. Questa associazione, come tantissime altre, ha costruito in diversi Stati africani relazioni e forme di cooperazione che oltre a realizzare strutture di sostegno per l’infanzia e le persone disabili, hanno dato vita a un fertile rapporto di scambio con le ONG e le realtà associative presenti in quei territori. Un giorno, in un mercatino, chiacchierammo a lungo con alcuni venditori ambulanti locali. Ci fece da interprete un signore che conosceva bene l’Italiano e lo Swahili. Ne nacque un improvvisato e spontaneo dibattito all’aperto, tra noi cooperanti italiani e loro, lavoratori tanzaniani. Rimanemmo per un bel po’ a scambiarci informazioni sui rispettivi Paesi, il costo della vita, le varie forme del lavoro. Alla fine della lunga chiacchierata, tra strette di mano e saluti fraterni, pervenimmo a due conclusioni. Noi, gli europei, e loro, gli africani, eravamo anzitutto d’accordo sul fatto che lasciare la propria terra è un atto d’amore verso la vita, così come lo è tornarvi. E poi concordammo su una questione che può apparire banale, nella sua disarmante semplicità, eppure costituisce il punto di partenza e arrivo di qualsiasi ragionamento sul presente: povertà e ricchezza non hanno latitudini fisse, ma con le dovute proporzioni esistono ovunque. È incredibile constatare quanto oggi sia difficile ripetere a voce alta questo dato di fatto senza essere annichiliti dall’indifferenza o addirittura linciati dai discorsi d’odio che serpeggiano tra i “social” media.
Ci sono vicende umane come quella di Silvia Romano, che costituiscono squarci di luce, speranze rivelate, fiammate di un’epica che non ci saremmo mai aspettati di veder tramutata in urgenza della scrittura. Le persone che vivono, studiano, raccontano le loro esperienze di attraversamento dei confini politici e culturali, pur avendo da sempre il dovere civile della testimonianza e la necessità di narrare per riprodurre il cammino intrapreso, non sarebbero tenute a dare troppe spiegazioni. Al contrario, ben altri soggetti dovrebbero difendere il proprio operato, ammesso che sia possibile. In un mondo “normale”, spetterebbe alle multinazionali, ai prestigiatori della xenofobia, agli onanisti del neoliberismo il compito di fornire un sostrato retorico alle devastazioni sociali e ambientali che vanno perpetrando. Invece ci troviamo tutti e tutte nell’irritante condizione di dover munire l’umanitarismo di un robusto supporto razionale. Bersagliato da pomposi ideologi a caccia di remunerative formulette, quando non ridotto a pietismo o addirittura sospettato di connivenze con le peggiori nefandezze, l’umanitarismo è la vera vittima dell’odio istituzionalizzato. Tutto ciò suscita rabbia. E la rabbia, per fortuna, a volte genera intelligenza collettiva, voglia di rimboccarsi le maniche, trovare scogli comuni sui quali approdare e da cui ripartire.
Che il presente fosse “liquido” già eravamo ben consapevoli. Dalle nostre parti, sulla lingua di terra che nel Mediterraneo si protende all’estremo meridione dell’Europa continentale, è frequente attribuire al sostantivo “liquido” la funzione di aggettivo qualificante la follia. Nel senso becero del termine, ci appare davvero folle, nonché paludosa e meschina, l’azione costante di chi bersaglia alle spalle le persone impegnate a praticare cooperazione, solidarietà, accoglienza, al di qua, al di là o nel bel mezzo del Mediterraneo. È triste dover prendere atto che appare dunque normale la follia e insensato il suo contrario. Siamo costretti a urlarci i nostri nomi per fare in modo che non scompaia il significato che esprimono, da un capo all’altro del mare tempestoso, come i migranti che invece di invocare aiuto urlano i propri mentre annegano, affinché i superstiti riferiscano che lì, in quel punto perso dell’ignoto, hanno cessato di vivere.
Un giorno forse dovremo spiegare perché c’è stato un tempo in cui abbiamo avuto il bisogno di spiegare; perché siamo stati costretti a urlare frasi che avrebbero meritato d’essere mormorate. Come già è accaduto innumerevoli volte in passato, chi sta violando delle regole in nome del rispetto della dignità umana, finirà sotto processo. E ne uscirà assolto, a prescindere dalle sentenze dei tribunali. Ma chi spinto dalla propria frustrante ignoranza, e in nome del suprematismo bianco, sta seminando odio legalizzato, misoginia, disprezzo, si è già condannato da solo all’infelicità perpetua.
Claudio Dionesalvi

Infonight

 

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