Genesi e possibile cura del morbo razzista tra gli ultrà

Ciccio irruppe in piazza con gli occhi carichi di odio. Tanti anni di trasferte insieme, però lui si ritrovava qualche neurone fuorisede più dei nostri. Non salutò nessuno. Si appartò in un angolo e cominciò a pennellare uno stendardo. S’intravedeva la traccia bianca sotto il corpo suo prono sulla stoffa di colore nero, spalmata sul marciapiede. I primi che gli s’avvicinarono per capire il soggetto della sua opera, tornarono paonazzi. Incredibile: una svastica, Ciccio stava confezionando uno stendardo nero con una corposa svastica bianca. Una cosa che non s’era mai vista prima, nella terra tra la conca e i colli urbanizzati ai piedi della Sila, che da oltre 2300 anni si chiama Cosenza. Ci siamo sempre vantati d’essere una delle tifoserie più antirazziste d’Italia. Ma come convincere Ciccio che stava commettendo un crimine inaudito? Ci avvicinammo increduli. “Ci’, ma sei impazzito? Perché stai disegnando ‘sta svastica?” All’inizio neanche ci degnò di una risposta. D’un tratto biascicò qualcosa, senza sollevare lo sguardo dal suo lugubre affresco: “Voglio vedere che cosa mi dicono quelli della curva Nord. Domenica lo porto allo stadio”. Quelli della curva Nord eravamo noi. In quegli anni la nostra tifoseria s’era spaccata. La parte più tradizionalista, comunque antirazzista, stazionava nella storica curva Sud. L’altra, più situazionista e, sul piano simbolico, politicamente schierata a sinistra, assiepava il settore contrapposto. A Ciccio come a molti altri, questa storia della spaccatura non andava giù. Lui frequentava la Sud. E aveva deciso di porre il problema a modo suo, esponendo una svastica nel “San Vito”, dirimpetto a noi. La domenica successiva, ovviamente, i gruppi della Sud gli impedirono di entrare in curva con quella nefandezza. Eppure il suo messaggio arrivò forte e chiaro. Nella cultura ultrà, come nel punk, a volte l’ostentazione di certi emblemi non trae origine da una scelta ideologica consapevole, bensì da un moto spontaneo di rifiuto, esprime la demarcazione di un confine identitario, una provocazione caustica, l’ostentazione del proprio odio verso qualcosa o qualcuno che si colloca dalla parte opposta, a prescindere dalle cause che hanno portato alla contrapposizione.
Esistono due tipi di contenuto a sfondo razzista nelle curve del tifo organizzato. Una forma larvata di micronazionalismo, anzi una sorta di localismo aggressivo, si manifesta un po’ ovunque, negli stadi calcio, per effetto della vocazione territorialista che si annida in ogni tifoseria. Questa attitudine è riflesso di una componente originaria. Non ci sarebbero stati ultrà, senza appartenenza ai luoghi, alle città, agli spazi eletti a presidio di tali aggregati giovanili. È una vocazione che può sfociare in comportamenti e messaggi apertamente xenofobi, ma non è detto che ciò debba avvenire sempre. Al contrario, in molti stadi italiani come in altri contesti europei, dove per diverse ragioni il bagaglio simbolico delle singole tifoserie si è orientato verso l’antirazzismo militante e la componente identitaria ha interiorizzato tale scelta di campo, la rivendicazione dell’odio razziale è stata bandita.
Esiste però un altro tipo di razzismo negli stadi. Ed è quello veicolato da militanti e organizzazioni di estrema destra, molto abili nel portare all’esasperazione una tendenza di per sé costitutiva di ogni aggregato ultrà: l’individuazione del nemico. Queste organizzazioni incontrano condizioni favorevoli. La maggior parte dei frequentatori di una gradinata presenta infatti un carattere verginale nella padronanza del lessico politico; soprattutto nei primi anni assorbe parole d’ordine e miti basati sulla semplicità del messaggio. D’altronde i gruppi della destra radicale autonoma trovano terreno favorevole non solo nella predisposizione delle curve a “farsi patria”, ma anche nel sistema poliziesco strutturatosi intorno al panorama del tifo organizzato negli ultimi decenni, che ha sterilizzato la componente solidaristica presente in diversi contesti curvaioli, accentuandone le pratiche paramilitari. A deviare l’immaginario verso la causa xenofoba contribuiscono i media mainstream che per semplificazione comunicativa, e spesso per esigenze di bottega, comprimono le categorie simboliche del razzismo e dell’ultrà, le appiattiscono rendendole omogenee e complementari.
C’era una volta Verona
La cultura della nostra terra contro l’idiozia delle vostre menti. Verona prima solo nell’eroina”. Il compianto ultrà Ettore Covello andava orgoglioso di questo striscione esposto a suo tempo in un Cosenza-Verona in risposta alle provocazioni neonazi degli ultrà scaligeri nella gara di andata. Nella sua tesi di laurea specialistica mai discussa, perché la morte prematura ne ha troncato sogni e prospettive, Covello individua il sostrato xenofobo nei rituali del pallone e rileva il carattere multidirezionale della discriminazione razziale dentro e intorno al football: “È spesso motivo di comportamenti violenti all’interno di una medesima tifoseria, infatti vi sono casi di insulti razzisti tra gli stessi tifosi di una squadra. Sono diverse le testimonianze di tifosi neri e meticci che dichiarano di essere stati insultati sugli spalti da altri tifosi, e ciò fa sì che la loro presenza sugli spalti sia molto limitata”. Questa casistica di eventi perlopiù spontanei, in qualche modo connaturati al gioco del calcio sin dalle sue origini, è testimoniata da un’ampia letteratura. In “Compagni di stadio” Solange Cavalcante ricorda le pesanti restrizioni per il tesseramento dei giocatori neri che in Brasile e altrove furono attuate per tutta la prima metà del ‘900: “Più tardi – un più tardi che si fece attendere fino agli anni Cinquanta – dirigenti e leghe dovettero cominciare ad aprire le porte dei club ai neri, non potendoli più lasciare fuori a guardare. Nonostante ciò, per ora la porta aperta dei club sarebbe stata solo quella secondaria, quella della servitù. Accettarono i giocatori neri e meticci, ma a patto che non accedessero ai club per gli stessi percorsi dei bianchi, che usassero retine e si stirassero i capelli, schiarendosi la pelle del volto con la polvere di riso”. Dal canto suo, Ettore Covello evidenzia quanto sia labile il confine tra spontaneità e propaganda studiata a tavolino. A partire dagli anni novanta, numerose sono state le iniziative di chiara finalità politica, che i gruppi egemoni di alcune delle principali curve italiane hanno prodotto per innestare un razzismo consapevole e schierato nella messaggistica differenzialista che nei linguaggi del calcio non è mai mancata, a tutti i livelli, persino istituzionali, nel passato recente come in quello remoto. Si pensi solo alle infelici esternazioni omofobe e antisemite del presidente della FIGC, Carlo Tavecchio.
Nel 1983/84 a Verona si sentirono i primi “Buuh” razzisti nei confronti di Cerezo, – scrive Covello – e nel 1996 si tentò di comprare un giocatore di colore, l’olandese dalla pelle scura Ferrer, ma dalla curva, in occasione del derby con il Chievo, appesero un fantoccio tinto di nero con una corda al collo e addosso la scritta “Negro go away”; dietro, un paio di ultrà gialloblu, indossarono il cappuccio del Ku-Klux-Klan. Inoltre esposero uno striscione in dialetto veronese che recitava: “Il negro ve l’hanno regalato, dategli lo stadio da pulire”, e sui muri della città avevano scritto “Meglio in C che un giocatore negro”.
Verona diviene così, sin dagli anni novanta, laboratorio di un neonazismo futbolistico riproducibile, alla portata del supporter spontaneo e sprovveduto, non assimilabile al militante dell’estrema destra. Il razzismo attecchisce nell’iconografia della tifoseria gialloblu, entra a far parte del suo codice costituente, assume la portata di tratto peculiare della volontà di insubordinazione che permea una comunità ultrà e la distingue dal restante contesto della tifoseria d’appartenenza.
Dick Hebdige, fondamentale studioso degli stili di vita giovanili conflittuali e delle pratiche di insorgenza spontanee non riconducibili alle forme della politica militante, spiega che “la risposta sottoculturale non è semplice affermazione né rifiuto, né sfruttamento commerciale e neppure ribellione sincera. Non è semplice resistenza a un ordine esteriore né esplicito conformismo alla cultura familiare. È, sia una dichiarazione di indipendenza, di alterità, di intenzione estranea che un rifiuto dell’anonimato, della condizione subordinata. È un’insubordinazione. Allo stesso tempo è anche una conferma della condizione di sottomissione, una dichiarazione di impotenza”.
Nei suoi studi, Hebdige sottolinea la tendenza innata delle sottoculture ad assorbire i feticci della società dei consumi, plasmandoli e riadattandoli in una sorta di bricolage semiologico. Ma – per dirla con Roland Barthes – emerge anche la loro ineluttabile propensione a lasciarsi assorbire e mitizzare, a farsi comprare per essere rivendute. Significative le celebrazioni per i 40 anni del punk, che in questi giorni attraversano le accademie e le istituzioni museali deputate al consenso.
Dunque nella saldatura tra insubordinazione e xenofobia è custodita la risposta alla domanda: Come prolifera il razzismo negli stadi? In un contesto come il recinto del calcio sociale, imperniato sull’istinto, sui messaggi a bassa frequenza o comunque su un’autoimposta limitazione della capacità critica, quando non trova una corrente culturale avversa che si affermi in modo conflittuale, pratichi l’uso della forza e imponga un autocontrollo nel campo della simbologia politica, la discriminazione razziale e quella di genere attecchiscono con maggiore facilità. Il luogo comune che attribuisce solo alla cultura di destra l’attitudine alla violenza e al comunitarismo, assimila l’identità ultrà al neofascismo, trascurando quanto tali componenti siano presenti anche nei movimenti sociali della sinistra antagonista. Che alla violenza non attribuiscono un primato, ma si riservano di esercitarla.
Narciso ultrà
Nel mito di Narciso il protagonista si innamora della propria immagine specchiata nell’acqua, al punto da caderci dentro e morire annegato. È un formidabile esempio di oggettivazione del soggetto vivente. Lo specchio liquido fotografa, immortala, restituisce il ritratto. Si tramuta esso stesso in Narciso, lo rimpiazza fino al punto che lui ci si tuffa dentro e rinuncia al proprio essere. Avviene un fenomeno analogo nei gruppi ultrà. Lo specchio infatti è costituito dai media e dall’immagine che costruiscono di ogni singola tifoseria. Gli ultrà reagiscono facendo propria la fotografia fornita dai mezzi d’informazione, rivendicando i tratti e gli aggettivi che nei loro confronti sono adoperati, spesso in senso dispregiativo. I social network amplificano questa tendenza, in quanto vettori di un’altra determinante componente del narcisismo: l’autocontemplazione. Le curve abitate dagli ultrà assorbono e capovolgono. Sono piene di stendardi che clonano le formule retoriche della vulgata mediatica: “Sparuta minoranza”, “Opposta fazione”, “Cani sciolti”. Ciò avviene non solo nella simbologia, ma anche nelle pratiche e negli slogan.
Accadde a Firenze, nel periodo dei mondiali di Italia ’90. Un gruppo di commercianti del centro storico assoldò delle ronde per liberare le strade dagli ambulanti nordafricani. Ci furono delle spedizioni punitive notturne, alcuni migranti finirono in ospedale. Sui media trovò ampio risalto il caso di una città come Firenze, dalle tradizioni democratiche, turbata da tali gravi episodi. Dalla curva Fiesole, da sempre di impostazione sinistroide, si alzarono cori come “Chi non salta è marocchino”. È chiaro che il processo di assimilazione e insubordinazione aveva spinto una parte della tifoseria viola a specchiarsi nella stigmatizzazione che i media producevano nei confronti della loro città, fino a identificarsi con quelle accuse.
Quale fascismo
Decisivo diventa allora comprendere quale sia l’intensità della retorica fascista che può trovare spazio tra gli ultrà. Anzitutto va ribadito che ad imporsi nell’iconografia e nella prassi, in alcuni contesti curvaioli, non è il cosiddetto fascismo in livrea.
Nel suo “Nazi-rock. Pop music e destra radicale”, Valerio Marchi spiega che già tra gli anni sessanta e settanta si afferma una nuova figura di giovane fascista: “Si caratterizza per una matrice sociale più variegata rispetto al ‘modello sanbabilino’ e per una dimensione culturale che tende ad appaiare alle coordinate storiche dei nazional-rivoluzionari tutta una serie di temi, di stili e di atteggiamenti, di ‘nuovi consumi’ mutuati dalla Sinistra. Alla consueta predisposizione all’atto violento, alla lugubre esaltazione della guerra e della morte, ai residui di nostalgismo inizia ad affiancarsi un senso di autocritica sulle commistioni del proprio ambiente con settori deviati dello Stato e, con essa, una messa in discussione di alcuni valori tradizionali e del proprio quotidiano modo d’essere”.
È proprio questo tipo di neofascismo ad attecchire nelle curve. Ed è lo stadio Olimpico di Roma a fungere da laboratorio. Tutta una serie di messaggi confezionati con notevole acume politico e spiccata conoscenza della comunicazione di massa, hanno favorito lo slittamento delle forme ancestrali della xenofobia presente nel football verso qualcosa di più concreto. Sarebbero tanti gli episodi da esporre.
Molti anni fa, nella stagione 1988/89, la fanzine degli ultrà laziali, “Mr. Enrich”, proponeva in copertina l’immagine derisoria di due giornalisti che affannosamente corrono verso la sala stampa di uno stadio di calcio. Ribaltando contro di loro uno slogan molto in voga ai danni degli ultrà, “Calmati! È solo un gioco”, li disegnava in abiti tipici e presunti tratti somatici ebraici, a saldare l’odio contro la categoria giornalistica al rancore antisemita. “I giornalisti sono insolenti e cinici come gli ebrei”, sembrava voler dire la vignetta del magazine biancoazzurro. Gli effetti semantici sulla mente di un giovane ultrà laziale, lettore abituale della fanzine e sprovvisto di strumenti culturali per decodificare il messaggio, sono immaginabili.
Ai propri calciatori che sfilavano sotto la Nord con una frase inneggiante all’antirazzismo, già un paio di decenni or sono i laziali rispondevano con uno striscione eloquente: “I vostri miliardi per le nostre borgate”. Chiara l’associazione del degrado dei quartieri popolari alla denuncia urlata dell’invadenza degli stranieri. Da terreno esclusivo di un proletariato solidale e geneticamente comunista, le periferie si trasformano così in sede privilegiata di una destra sociale radicale e radicata. E lo striscione esposto, sempre in quel periodo storico, nel derby contro la Roma: “Ieri rossi, oggi bianchi, ma di nero solo Aldair” stuzzicava la Sud nell’orgoglio neofascista, poco tempo dopo la sua conversione in territorio nero, conseguente alla cacciata del CUCS. Per capire in che misura tale propaganda abbia contribuito a innervare una mentalità xenofoba persino nei luoghi meno inclini a recepirla, è prezioso un libro di Giuliano Santoro, “Al palo della morte”, che con la questione degli ultrà non ha legami diretti. Il racconto ricostruisce il contesto in cui maturò l’omicidio del pakistano Shahzad, avvenuto nel 2014 a Roma nel quartiere Tor Pignattara. “Ci diceva che non era come noi, che non era una spia come noi, che noi siamo dei comunisti di merda e delle zecche e che saremmo dovuti tornare ai Parioli”, riferiscono i testimoni del delitto a proposito delle urla minacciose lanciate contro di loro da una delle persone coinvolte nell’assassinio a sfondo razziale. Nella mentalità borgatara, i Parioli non sono più dunque la zona franca dei romani ricchissimi, ma un nido di comunisti.
Quando ad ammazzare è un “ultrà”
La morte di Emmanuel Chidi Namdi, il nigeriano ucciso nella scorsa estate a Fermo dal 39enne Amedeo Mancini, segna il culmine nella distorsione funzionale attuata dai media mainstream in questo Paese. Sin dal primo istante, Mancini è anzitutto un “ultrà della Fermana, dunque un fascista”. La seconda identità è conseguenza della prima e comunque diventa un particolare marginale. La maggior parte delle testate giornalistiche ha deciso che l’assassino, in quanto ultrà, è intrinsecamente razzista. Che Mancini fosse un ultrà della Fermana, è indiscutibile. Il problema sorge quando il legame tra la sua militanza in curva diventa inscindibile dalle sue convinzioni razziste. In taluni casi, il tono è addirittura indulgente. Scrive Il Resto del Carlino: “Intorno ad Amedeo Mancini, l’ultrà della Fermana Calcio che nella tragica e controversa lite di Fermo ha sferrato un cazzotto al profugo nigeriano Emmanuel (poi morto per la ferita alla testa susseguente alla caduta), ci sono la direttrice del carcere di massima sicurezza di Ascoli…”. Dunque la lite è “controversa”, e comunque è stato sferrato solo un “cazzotto”. Povero ragazzo – viene quasi da pensare leggendo le cronache di quei giorni –, in fondo la sua xenofobia è soltanto un istinto difensivo maturato in tanti anni di stadio. Ma può guarire. Sì, è vero, ha colpito Emmanuel dopo aver dato della “scimmia” alla compagna della vittima, però si sa che questi ragazzi usano la forza più per gioco che per cattiveria. Se ha sbagliato, è perché fa l’ultrà. E tutti gli ultrà sono un po’ razzisti, sebbene spesso manifestino questa “attitudine” in senso goliardico.
“Fascista” e “violento” diventano due connotati accessori e inevitabili dell’identità curvaiola. E per i media “Ragazzi carichi di passione” son pure quelli che seguono la nazionale di calcio. Peccato che ogni tanto si lascino andare a saluti romani e slogan antisemiti. Del resto sono “estremisti”. Sì, va bene, sono “di destra”. Ma secondo il rapporto periodico di polizia sui gruppi ultrà, nella black list bisogna inserire anche tanti gruppi “di estrema sinistra”, come quelli che sulle gradinate hanno aderito alla campagna “Welcome Refugees”, esponendo striscioni di benvenuto ai migranti. Così il vecchio teorema degli “opposti estremismi”, sempre utile per giustificare la legislazione d’emergenza, torna in voga e appiattisce linguaggi e appartenenze.
Sesto tempo
La violenza xenofoba è dunque quella più riproducibile e al contempo la meno rischiosa da praticare. Basta individuare un nemico debole e aggredirlo per ottenere legittimazione e rispetto nel gruppo dei pari. Pratiche e linguaggi razzisti negli stadi hanno attecchito sul sostrato preesistente. Tuttavia, c’è una via d’uscita? La risposta forse può arrivare dal restante panorama ultrà europeo che essendo anagraficamente posteriore quindi periferico rispetto a quello italiano, può conservare dei tratti distintivi utili alla comprensione di certe dinamiche. È noto che nella maggior parte dei casi, i gruppi dell’est europeo aderiscono ai movimenti nazionalisti in ascesa nei rispettivi Paesi. L’argomento meriterebbe una trattazione specifica e adeguata. Eppure in altri contesti, come la Germania e l’Inghilterra, esistono tifoserie schierate apertamente in senso antirazzista. In Italia la risposta al quesito “Che fare?” è custodita in un possibile diverso modo di inquadrare il municipalismo conflittuale. Fino a quando l’appartenenza a un territorio sarà considerata campo esclusivo delle destre, tutto l’armamentario simbolico futbolistico slitterà verso l’identitarismo delle “patrie locali”. Ma recuperando la lezione di tanti movimenti che nella difesa dei propri luoghi e dei beni comuni, esercitano la forza fisica e la ragione contro le multinazionali e i poteri costituiti posti a tutela dei loro interessi, è possibile inoculare degli anticorpi culturali in ciò che resta delle curve degli stadi di calcio. Il solidarismo e la contaminazione con le altre etnie possono e devono diventare motivo d’orgoglio anche nei linguaggi degli ultrà. Un vecchio slogan antixenofobia dei Cosenza Supporters recitava: “Per il pallone è indifferente CHI lo calcia”.
Claudio Dionesalvi
“Nuova Rivista Letteraria”, Alegre, novembre 2016

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