Brunori Sas: «Alle urla rispondo con un Cip!»

Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è il cantautore principe in Calabria, da molti considerato l’erede di Rino Gaetano. Da poco è uscito il suo nuovo album Cip!, già in testa alle classifiche. A una settimana dalle elezioni calabresi abbiamo scambiato con lui impressioni sul voto e non solo.
Partiamo dal tuo ultimo lavoro. Dunque meglio il «cip» che il «bau bau»; meglio la mitezza che l’aggressività?
Penso che in questo momento storico un autore debba interrogarsi non solo sul «cosa», ma anche sul «come». Nel mio disco mi sono concentrato molto su questo aspetto. Anzi, a volte ho lavorato più sul suono che sul significato, perché sono convinto che alcuni concetti mediante il canto arrivino più forti e che spesso una voce che canta in un certo modo riesca a dire più di quel che dice. Se voglio un mondo più gentile devo partire da me. Questo disco nasce anche dall’amarezza, dal disincanto e dalla mortificazione che provo ogni giorno di fronte ai toni esasperati, alle urla, alla violenza e all’arroganza di una parte di umanità spaventata che reagisce al naturale mutamento della vita arroccandosi e mostrando i denti. Avrei potuto scrivere usando lo stesso tono, urlando anch’io, ma non è nella mia natura e soprattutto mi sembrava ancor più forte rispondere alle urla con il garbo di un «Cip!», delicato ma anche cazzuto, come il pettirosso dipinto in copertina. Il mio non è un inno alla moderazione, ma uno sprone a non cadere nella trappola della baruffa che fa il gioco di chi a quel tipo di toni è più allenato.
Nel precedente disco parlavi di paure. Ne «L’uomo nero» cantavi che il suprematista italiano «spesso ha un debole per i cani / Pubblica foto dei suoi bambini / Vestito in abiti militari / Hai notato che spesso dice / che noi siamo troppo buoni / E che a esser tolleranti poi / si passa per coglioni». Il linguaggio dell’odio ha contagiato la società e ammorbato la politica. Perché?
Perché l’odio anzitutto adesso è un sentimento più puro. Penso che siamo stati educati troppo all’amore sin da bambini: amare a prescindere, sempre e comunque. Ma l’amore non è cosa che si insegni con le parole. Bisogna coltivarlo, bisogna che arrivi dall’esperienza diretta, dal confronto, dal contatto, anche dallo scontro. L’odio invece ci fa sentire vivi, perché è una trasgressione all’amore farlocco imposto dal politicamente corretto. I social poi, eliminando i fattori di empatia, l’incontro degli sguardi, la reazione dell’altro, hanno fatto il resto. E poi ovviamente c’è la paura: la paura anzitutto di perdere quel poco che ognuno pensa di possedere. La condizione della popolazione oggi non è percepita come quella dei nostri genitori. Siamo figli dei figli del boom, in cui tutto era possibile, il futuro era roseo e la strada per la felicità sembrava tracciata. Oggi il futuro sembra una macchia scura all’orizzonte. Ma è solo una questione di aspettativa. Un tempo ci si aspettava poco e ogni cosa era un’epifania. Oggi ci si aspetta molto e tutto non è mai abbastanza. C’è chi dice: non sarai felice mai, se non sei felice di quello che hai. E un po’ sono d’accordo. Non è che «chi si contenta gode», ma siamo ormai assuefatti a un sistema di mercato che spinge all’insoddisfazione perenne e a pensare che il vuoto che avverti dentro, tu possa colmarlo riempiendo il carrello di Amazon. E se penso di non avere abbastanza, ho paura che gli altri possano rubarmi anche quel poco che ho. L’altro non è un’opportunità, ma una minaccia. L’inferno sono gli altri di Sartre sarebbe uno slogan perfetto per molti. E l’odio, a quel punto, diventa l’unica risposta plausibile.
La generazione dei «giovani» ultraquarantenni, al centro del programma «Brunori Sa» che conducevi su Rai 3, in Calabria come altrove fatica a ribellarsi. Come mai?
Perché siamo cresciuti comodi e controllati, molto meno selvatici rispetto a chi ci ha preceduto, molto più «addivanati» che all’aria aperta. E la cosa sembra andare a peggiorare. Secondo il mio produttore tutto è finito quando hanno messo il casco obbligatorio per i motorini. Fa ridere, ma se ci pensi un po’ è così. Lungi da me farmene vanto, ma qualche mese fa ho accompagnato in macchina, dal mare a casa (meno di un km) mio nipote di cinque anni, e siccome non avevo il seggiolino lui si è agitato assai non sentendosi legato come al solito. Se penso a come andavamo in macchina noi da piccoli, coi genitori che fumavano tranquillamente, in quattro dietro senza cintura, mi viene da sorridere. Ora non voglio dire che sia questa la ragione primaria, ma vedo che tutto nel nostro mondo attuale tende a tenere sotto controllo le persone, a spaventarle, a reprimerne il naturale anelito all’esplorazione, alla scoperta, all’uscire dal cortile e guardare il mondo con i propri occhi. La tecnologia poi fa il resto, alimentando l’illusione che le rivoluzioni si possano fare in poltrona, fra una serie tv e l’altra. E poi ci abbiamo sbattuto il muso troppe volte. Genova 2001 è uno spartiacque, da allora in molti hanno iniziato a pensare che lo scontro diretto non fosse la soluzione più intelligente. Non giustifico, ma comprendo.
Hai partecipato al raduno delle sardine a Cosenza. Che idea ti sei fatto? I tuoi pettirossi sono un po’ come le sardine…
Beh forse un po’ si somigliano. Anch’io ho quest’anima a metà strada fra la sinistra progressista e i boy scout. Lo dico con ironia, perché ho partecipato al loro raduno spinto dalla convinzione che oggi sia giusto sostenere un movimento che fa incontrare i ragazzi in carne e ossa e che si interroghi, partendo dal basso, su quali siano le soluzioni migliori per arginare le preoccupanti derive populiste degli ultimi tempi. Non so se mi ritrovo del tutto nel loro linguaggio, ma penso capiti a tutti noi «vecchi». Però sono convinto che è tempo di dare priorità alle cose che ci uniscono piuttosto che a quelle che ci dividono. Spero solo che l’ingenuità, insita in questo tipo di movimenti giovani, sia un valore aggiunto e non un’arma a favore di ciò che si vuol combattere.
Casa tua è a San Fili, un paese con meno di 3000 abitanti in Calabria. Nonostante i sei mesi di tour all’anno, riesci ad abitarci lo stesso. In una terra di emigrazione, come fai?
Niente di eroico. Semplicemente sto bene qui, ho la mia famiglia, i miei amici di sempre, il clima, i luoghi, il cibo, gli scorci giusti per stare tranquillo e avere il mio ritmo nel fare le cose. Sono cresciuto a Joggi (400 anime all’epoca) e già se vedo più di dieci persone in una piazza per me è folla. Forse c’è anche la paura che la città possa cambiarmi e far crollare l’architettura su cui poggia la mia vita attuale. E poi, se me ne vado, a mamma chi la sente?
La Calabria è chiamata alle urne tra una settimana. Sono elezioni dalla forte valenza nazionale. Andrai a votare?
Sto cercando di trovare il modo, perché sono in giro per la penisola a diffondere il mio verbo. Spero tanto che i miei conterranei siano consapevoli dell’importanza della loro indicazione e che sappiano con certezza chi stanno realmente votando e perché, al di là dei faccioni sui muri. L’ingenuità a volte fa più danni della furbizia. In ogni caso penso sia necessario, mai come questa volta, esprimere non solo la propria visione politica, ma permettimi, la propria visione etica e poetica del mondo, mediante il voto. Forse sono un illuso, ma oggi preferisco l’illusione dell’incanto a quella del disincanto. E per questo canto.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 23 gennaio 2020

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