Calabria, la Lega avanza nella regione del rancore

C’è chi gli dice no: i bar, i conventi e le tante “sardine” emiliano-romagnole. Ma c’è chi gli dice sì. E in Calabria sono tantissimi. In vista del 26 gennaio l’inedita cavalcata di Matteo Salvini in Calabria pare inarrestabile. Piazze piene, sale stracolme. Ma, soprattutto, l’assenza di una opposizione di massa e tangibile come altrove. Il salvinismo di Calabria viene da lontano. Ha sedimentato in anni di disillusione e crisi sociale. Lì dove non aveva radici, né precedenti, la Lega avanza e rischia a queste latitudini di essere il primo partito. Malgrado abbia dovuto cedere la nomination a Forza Italia, con Jole Santelli, il carroccio in versione calabra ha operato la prima comparsa sui territori servendosi di un vecchio ceto politico, di personaggi avvezzi a un trasformismo di comodo, a trasferire le proprie virtù clientelari sul carro del vincitore. Di tutti quei soggetti sociali disposti, per opportunismo, ad agevolare l’inevitabile ascesa. Ma al di là delle mosse politiche e dell’incapacità degli altri, le ragioni del successo della Lega sono da ricercare nelle condizioni stesse in cui la regione versa. Il voto in Calabria parla di un’angoscia misconosciuta, di un ripiegamento, di un istinto di conservazione. La provincia calabra cerca protezione, si accontenta di essere vezzeggiata da una narrazione almeno abile a includerla toccando le corde giuste per creare una connessione sentimentale: l’identità, le radici, la difesa dalla minaccia esterna. Il messaggio salviniano allude a un ripristino di un passato rimpianto. Con il suo campionario di riferimenti iconografici, con la sua retorica abusata e monotona che comunica senza offrire soluzioni ma che almeno è chiara e non astratta. Quando a fine anno venne decapitata la madonnina del mare di Briatico, vicino Tropea, l’unico politico a mandare un messaggio “alla comunità di fedeli contro chi vuole distruggere il santo Natale” fu proprio lui. Il successo di Salvini è poi scritto nei quartieri periferici delle principali città, nei centri sperduti dell’entroterra. Basta fare una passeggiata, parlare con chi vi abita. C’è tutto il rancore verso “quei comunisti del Pd” che nella percezione popolare non sono più i “mangiatori di bambini” branditi dalla Dc e poi dal berlusconismo. Per chi voterà Salvini in Calabria, i dem sono quelli che “hanno mangiato”, cioè si sono arricchiti. Non ci volevano le recenti inchieste dell’antimafia di Gratteri per certificarlo. La maggior parte degli elettori che voteranno Lega, comunque, sarà mossa da un rigurgito rancoroso verso “la sinistra” che negli ultimi due decenni ha gestito l’informatica, le risorse naturali, la sanità, l’accoglienza ai migranti, i fondi comunitari, gli incentivi per le imprese. Poco importa che a saccheggiare questi settori siano stati anche amministratori del centrodestra. Prevale la convinzione che la colpa sia solo del gruppo dirigente che ha guidato il Pd. In effetti, devastanti sono i risultati di queste gestioni, nella regione in cui non funziona nulla. Chiunque si senta escluso dalla spartizione clientelare dei fondi derivanti da tali attività, voterà per Salvini che si presenta da politico, non come tecnico o esperto, quindi detiene capacità persuasive che gli altri non possiedono. Un’altra spinta al voto arriva dalle famiglie politiche invischiate con la delinquenza più o meno organizzata. La loro è la più classica delle scommesse sul “cavallo vincente”. C’è, infine, la ventata xenofoba, quella di chi teme la “sostituzione”, argomento brandito con impeto dalla “bestia” nelle sue ultime puntate in Calabria. Il leader suprematista ha preso di mira “l’idea Riace” e “quel sindaco che voleva sostituire i calabresi con i migranti africani”.
A nulla serve far notare che per paradosso lo stesso Salvini deve gran parte del suo successo proprio alla “sostituzione” interna, avvenuta in molte delle città del nord, dove intere aree urbane sono abitate da migranti delle diverse generazioni provenienti dal sud. Una parte consistente della marea di ex meridionali trapiantati nelle terre padane e zone limitrofe, sopraffatta dalla smania di prendere le distanze dal proprio retroterra e dai perfidi luoghi comuni post-unitari sugli stili di vita del Mezzogiorno, ha scelto la dissociazione identitaria, il rinnegamento ostile, l’adesione per ripicca al più antimeridionale dei movimenti: quello, appunto, leghista. È un complesso di Narciso deviato, l’incapacità di guardarsi allo specchio senza distruggere una parte di sé. Emigrato o resiliente, il meridionale che vota Salvini non riesce ad accettare di essere parte del problema e s’illude di risolvere il proprio conflitto aderendo ad una nuova “soluzione finale” basata sul principio autoassolutorio: “io non sono come gli altri, quindi mi schiero con il loro opposto”. Così resta in messianica attesa di una soluzione forse non genocida ma pur sempre drammatica, che soltanto una “bestia” primordiale con la sua ferocia potrebbe attuare. Ed è proprio questo sentimento che anche in Calabria renderà forte la Lega.
Per la prima volta, Salvini oggi metterà piede a Riace. Lo aspettano alla marina nel pomeriggio, a piazza dei Bronzi. E lo attende il sindaco ineleggibile, quel Tonino Trifoli che in questi mesi ha delucanizzato il borgo. Ma a Riace Superiore, il luogo dell’accoglienza e del meticciato, Salvini e i suoi non saliranno. Gli basterà marcare il territorio imbandendo anche in riva allo Jonio la tavola dell’insicurezza e della paura. Per poi scappare verso altri selfie e altre dirette Facebook. In una Calabria che lo osanna.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 17 gennaio 2020

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