Vecchi slogan e nuovi bisogni

ACRI – Cosa si nasconde dietro quelle seicento persone che hanno occupato il Comune? “La fame”, è la risposta spontanea. O perlomeno, la paura di dover fare i conti con la difficoltà di garantire un piatto di pasta a se stessi e ai propri familiari. Quanti sono i disoccupati ad Acri? Tanti, circa 3500. E seicento sono quelli che hanno presidiato il Municipio. Un’altra domanda serpeggia in questi giorni: «Le persone che hanno dato vita al movimento sono tutte, effettivamente, senza un posto di lavoro?». Gli osservatori più attenti giurano che tra quei seicento manifestanti, solo la metà è bisognosa di una sistemazione. Gli altri sarebbero invece rivoluzionari dell’ultim’ora e qualcuno ha addirittura abbandonato il posto di lavoro, pur di inserirsi nelle liste dei disoccupati. E lo avrebbe fatto in vista di una sistemazione che dovrebbe arrivare grazie ai famosi quattro miliardi di finanziamento, che saranno assegnati ad un progetto di “Riqualificazione urbana”.
In realtà quei seicento disoccupati sono animati da spinte diverse. Prima di tutto, il sacrosanto diritto a percepire un reddito. Il dramma nasce quando non si riesce a sganciare questa rivendicazione dalla solita vecchia richiesta del contributo di povertà, retaggio di un tempo passato, in cui i problemi del mezzogiorno venivano affrontati con la ricetta dell’assistenzialismo. Il “reddito” non può e non deve necessariamente corrispondere al “lavoro”, che non si capisce più da quale parte debba arrivare. Chi dovrebbe garantire un lavoro ai disoccupati acresi? Forse quegli stessi padroncini che da anni li costringono a lavorare al nero e senza garanzie? Oppure l’occupazione deve arrivare da Roma? Di destra o di sinistra che siano, i governi vogliono risolvere il problema della disoccupazione al sud, fornendo incentivi alle imprese e “ammazzando” il costo del lavoro. «E sì, perché in Calabria – si sente dire spesso – non c’è molta voglia di faticare». I fatti dimostrano il contrario. Un ragazzino di tredici o quattordici anni, che fa il garzone in un bar di Cosenza, guadagna trecentomila lire al mese e lavora dodici ore al giorno. Dodici ore! Lavoro minorile, sfruttato e al nero. La situazione è identica, anzi peggiore, nei paesi dell’entroterra dove ancora oggi esistono latifondi e caporalato. In questo contesto, quei quattro miliardi incontreranno ostacoli enormi, prima di essere messi a disposizione della comunità acrese. C’è il rischio serio che si impantanino nelle secche dei livelli intermedi e diventino residui passivi. Ma anche ammesso che arriveranno a destinazione, si tratterà comunque di stabilire i criteri in base ai quali saranno redistribuiti. E poi, a cosa serviranno? «Riqualificazione urbana», si è detto. Una formula ambigua, che potrebbe nascondere l’ennesimo stratagemma assistenziale.
Allora, per evitare di assecondare le logiche perverse del passato, i disoccupati dovrebbero fermarsi un attimino e guardarsi negli occhi. Prima di tutto, è indispensabile abbattere la cultura delle fazioni: il gruppo di Tizio, contro la banda di Caio e gli interessi di Sempronio. Questo modo perverso di condurre le lotte, serve solo a danneggiare gli stessi disoccupati e favorire gli interessi dell’attuale classe politica che poi è responsabile di una buona fetta dei mali della Calabria.
Quindi, sarebbe più saggio cambiare le parole d’ordine. Anziché chiedere un posto di lavoro, che non arriverà mai perché il nuovo sistema produttivo ha bisogno di macchine e non di uomini, si potrebbe urlare ai quattro venti: «Abbiamo, in quanto esseri umani, diritto ad un reddito sganciato dal lavoro». In nord Europa è una realtà. Non un’utopia. O comunque lo è meno di quei quattro miliardi che finiranno presto. Molto presto.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 6 ottobre 1998

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