Nelle tane sotterranee dei “senza fissa dimora”

Laggiù, dove le persone hanno rinunciato a chiedere asilo e soccorso, nelle zone dimenticate della città, si contorce un’umanità esile ma combattiva, aggrappata alla lotta per la sopravvivenza. Il popolo dei “senza fissa dimora” non ha né capi né punti di riferimento e sfugge ai riflettori della comunicazione di massa. I cosiddetti “barboni” eludono anche le profferte delle associazioni di carità. Chi ha scelto di spezzare i legami con la società civile, utilizza solo occasionalmente le strutture di solidarietà. Una doccia, un pasto rapido, poi i migranti si rituffano nelle loro zone liberate, nuotando nella spazzatura e costruendo le proprie dimore tra i rifiuti della modernità.
A Cosenza, come in ogni angolo del pianeta, esistono edifici inagibili, ponti, baracche, rifugi, case abbandonate… abitati da diseredati. Lo Stato li chiama “clandestini”. La Chiesa: “fratelli sfortunati”. La destra: “problemi di ordine pubblico”. La sinistra: “extracomunitari”, oppure “emarginati”. Quando si verifica un episodio criminoso, non importa se uno stupro, un furto o una rapina, i “senza fissa dimora” sono i primi ad essere interrogati. A Natale, i cittadini fanno a gara per soccorrerli. In estate, diventano trasparenti, diafani, immateriali.
E anche i loro ricoveri assumono contorni invisibili. Si dissolvono nel nulla i ruderi della vecchia stazione, le carrozze abbandonate a Vaglio Lise, la casetta alle spalle dei Tredici canali, l’antico cinema-teatro sul fiume Busento. Per uno scherzo del destino, tutti i rifugi sono ubicati nelle zone centrali della città nuova. In alcuni casi, si tratta di un tappeto di bottiglie rotte, che sorregge materassi mummificati. Non mancano le classiche panchine sormontate dai cartoni o i ponti affumicati dai falò notturni. Queste persone si sono lasciate alle spalle esperienze drammatiche. Nella maggior parte dei casi, rinunciano a cercare parenti e amici, dimenticano le proprie origini e vivono senza tante pretese. Sono storie spesso molto tristi. Come quella di Kaled, marocchino. È  arrivato in Italia con il padre, quando aveva appena dodici anni. «Ma di mio padre – dice – ho perso le tracce. Non so nemmeno se è già morto. Io vivo qui in una macchina abbandonata». Nel limbo dei senza-famiglia, si trova veramente di tutto. Anche Rita è sola e ogni notte dorme in una vecchia casa. Non ha paura del buio e della solitudine, perché «se mi si presenta davanti un fantasma lo prendo a calci nel sedere. E se qualcuno vuole farmi del male, me lo mangio vivo». Una bella grinta per una ragazza che ha due figli piccolissimi, allevati in un convento di suore. E passeggiando nella città dei senza-città, ci si può imbattere in Giovanni. Anche lui un tempo aveva due bambini da sfamare. Poi ha rotto con sua moglie e si è sposato con il marciapiede. Martedì scorso, si è presentato al pronto soccorso dell’ospedale civile dell’Annunziata. Aveva un testicolo grande come un pallone di basket. «Mi ero beccato una bella infezione – racconta Giovanni-. Se non sbaglio si chiama “ortite”. Un amico se ne è accorto e mi ha detto di correre dai medici. Quelli mi hanno dato una pomata e un antibiotico. Ma di ricoverarmi non ne hanno voluto neanche sentire parlare. È ovvio. Come fa uno come me, un tossicodipendente, a stare in mezzo ai malati normali? Ho provato la comunità, ma quelli hanno troppe regole e io non ce la faccio».
Le mura dei rifugi occupati dai “senza fissa dimora” accolgono poesia, lamenti, testimonianze. A differenza della lirica dei detenuti, la poesia degli invisibili è scoppiettante, rigogliosa e spesso ricca di citazioni. Su un mattone forato, nei pressi della stazione vecchia, riaffiora un verso “maledetto”, tracciato con un legnetto carbonizzato: «Nuotiamo verso la luna, arrampichiamoci attraverso la marea, penetriamo la sera, che la città dorme per nascondere».
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 21 agosto 1999

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