Dal ghetto al «Dambe So», una casa per la dignità dei braccianti di Rosarno

L’hanno chiamata Dambe So, termine della lingua bambara parlata in diverse zone dell’Africa. È «La casa della dignità», ideata, progettata e messa in atto per sperimentare la «deghettizzazione» dei braccianti che popolano gli insediamenti informali della Piana di Gioia Tauro.
Gli artefici sono gli operatori e i volontari di Mediterranean Hope – Fcei. Dal mese di febbraio il centro ospita dieci braccianti provenienti dalle baraccopoli di Rosarno e San Ferdinando, e «si pone come modello di sperimentazione per un’alternativa alla logica dei campi di accoglienza basata sul principio della sostenibilità e dell’economia circolare».
Francesco Piobbichi, conosciuto da tutti come «Piobbico», si è trasferito in Calabria da tre anni. Perugino di Umbertide, già animatore delle Brigate di solidarietà attiva, si è messo in testa un’idea rivoluzionaria e dirompente: liberare il tempo dei braccianti e fare in modo che i raccoglitori acquisiscano piena coscienza della propria condizione.
L’ostello sociale di san Ferdinando, che in maniera più strutturata partirà dalla prossima stagione di raccolta agrumicola, ospita dal febbraio scorso 10 braccianti ed arriverà ad ospitarne un massimo di 20 dal prossimo settembre.
«I lavoratori migranti contribuiranno alle spese della struttura con una piccola quota. Parte dei costi sarà sostenuta dalla vendita delle arance della filiera di Etika, altro progetto sociale ed ecocompatibile che Mediterranean Hope e Sos Rosarno hanno costruito in Italia e in Europa in questi anni. Una rete di acquisto tra le chiese e il mondo associativo che garantisce un prezzo equo per chi lavora e contribuisce all’accoglienza dei lavoratori».
Piobbichi dice che in questa sperimentazione c’è un richiamo che riporta alle prime camere del lavoro romagnole dell’Ottocento e all’Iww, il sindacalismo rivoluzionario americano che propugnava l’azione diretta e l’abolizione del lavoro salariato per il raggiungimento di una democrazia industriale dove la gestione dei luoghi di lavoro fosse trasparente e in mano alla stessa classe lavoratrice. E che fosse capace non solo di proporre, ma anche di prefigurare, praticandolo, un diverso modello sociale.
«Vogliamo attualizzare le antiche società di mutuo soccorso – spiega – dimensione mutualistica, diritti del lavoro e forme basilari di welfare, insieme. In questi anni abbiamo lavorato per costruire un esempio concreto e dare alla politica un segnale: è possibile «smontare» i ghetti e uscire dalla logica dell’emergenza. L’ostello è un esempio in questa direzione. La responsabilità sociale delle imprese permette inoltre una sostenibilità economica. Il progetto non pesa sulla fiscalità generale dello Stato ma redistribuisce i profitti all’interno della filiera. Ma quel che più conta è ridare la dignità ai lavoratori. Lavoratori che, contribuendo alle spese, avranno lavoro e casa come elementi di integrazione, in un luogo non separato dal resto del Paese».
Molto soddisfatto anche Ibrahim Diabate, operatore sociale, poeta, già bracciante agricolo. «Crediamo che in questo progetto ci siano grandi prospettive di crescita – spiega Diabate – . Ci stanno pervenendo numerose richieste di posti disponibili, anche da fuori della Piana. I ragazzi qui vivono bene, quindi tutti hanno voglia di venire. Grazie alla rete che abbiamo messo in piedi, questo è un modello riproducibile. Ci sono migliaia di case abbandonate nel territorio. Basta avere la volontà politica. Soprattutto, è importante che una volta per tutte i lavoratori della terra siano considerati esseri umani, persone, non strumenti da lavoro. Noi a costo zero abbiamo fatto tutto questo. Alle istituzioni, che spendono milioni di euro delle casse pubbliche in progetti che spesso non producono nulla e finiscono per peggiorare la situazione, chiediamo una cosa semplice: ma davvero è così difficile seguire questa strada?».
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
il manifesto, 21 maggio 2022

 

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