Una lupara bianca di stato

UNA VERA e propria “lupara bianca” di Stato. Gente che sparisce, e non se ne sa più niente. Nelle carceri italiane, tra il gennaio 2002 ed il luglio 2003, circa cento persone recluse, morte di suicidio, malattia, overdose o cause non accertate, sono scomparse nel nulla. Non hanno identità né provenienza. “Ogni due detenuti che muoiono, uno passa quasi inosservato”.
A questa spettrale verità è pervenuta, dopo un lungo e certosino lavoro d’inchiesta, la redazione di Ristretti Orizzonti, periodico d’informazione e cultura attivo presso il Centro di documentazione del carcere Due Palazzi di Padova. Il Gruppo Rassegna Stampa ha studiato attentamente le cronache italiane dell’ultimo biennio, esaminando centinaia di casi. Scavando tra le righe di articoli pubblicati da grosse, medie e piccole testate giornalistiche, è emerso un quadro agghiacciante. Oltre alle documentate schede sui singoli episodi, il dossier è corredato da due sezioni. “Una raccoglie notizie e riflessioni tratte da giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella”. L’ultima parte, costituita da tabelle riassuntive, è riservata ai numeri: “L’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi”.
Le galere calabresi sono più volte citate nel dossier. Alcuni casi inquietanti si sarebbero verificati nelle case circondariali della regione. Ristretti Orizzonti scruta la realtà carceraria italiana passandola al microscopio. Dalle algide carte dell’informazione, anche quella più garantista, prendono forma larve di esseri umani ridotti a numeri. Gli articoli riguardano le tragedie che accadono dietro le sbarre, somigliano molto alle “cronache di guerra, con le dimensioni degli eserciti e con il bilancio di morti e feriti”. A voler essere cinici, tutto ciò forse avrebbe senso se si trattasse di raccontare uno scontro fra la “società civile” e il “ mondo dei delinquenti” ancora liberi. Ma “occupandoci di carcere, cioè di un mondo nel quale la guerra è terminata e bisogna ricostruire una qualche occasione di riscatto per chi era un nemico ed ha smesso di esserlo, non dovrebbe più esistere la distinzione tra le persone che hanno un nome e un’identità e quelle che sono rappresentate da un numero, magari inserito in una statistica di portata nazionale”. E invece la “ guerra” contro i reclusi continua a colpire di indifferenza, smanie vendicative e false promesse di amnistie che non arriveranno mai.
“Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere”. Avviene spesso nelle galere fatiscenti, dove minore è la presenza dei volontari. La perdita di ogni speranza, l’ineluttabilità del proprio destino: queste le ragioni che spingono maggiormente al gesto estremo. Per chi sopravvive al tentativo di suicidio, la terapia è sempre la stessa: isolamento nelle celle lisce, “oppure il ricovero in psichiatria, dove il paziente viene immobilizzato nel letto, con cinghie che gli stringono i polsi e le caviglie, e imbottito di sedativi”.
Non sempre, però, il detenuto vuole realmente togliersi la vita. A volte, finge. Ma se la simulazione è esasperata, può diventare vera e portare alla morte. I più votati all’autodistruzione sono i meno anziani. Recita testualmente il dossier: “Circa un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e un altro terzo un’età compresa tra i 30 e i 40. In queste due fasce d’età il totale dei detenuti sono, rispettivamente, il 26 e il 36 per cento; quindi i ventenni si uccidono con maggiore frequenza rispetto ai trentenni”. Secondo il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, tra il 2002 e l’agosto 2003 i tentati suicidi e gli autolesionismi sono aumentati del 58 per cento.
Non tutti si gettano volontariamente nelle braccia della morte. Molti la trovano per mancanza di assistenza sanitaria. “I tribunali applicano in maniera molto disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate e spesso, la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la malattia che lo debilita”, si legge nel dossier.
In carcere mancano farmaci comunissimi, come gli antinfiammatori, l’aspirina, o addirittura le siringhe. L’Anlaids è convinta che “almeno il 70 per cento delle persone sieropositive e ammalate, non ricevono cure corrette”. A volte, i detenuti “usano la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione (una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno, farmaci con i quali sballarsi), oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente- detenuto sul fatto che non è niente di grave”. Infine, le morti per cause non chiare e per overdose. Pestaggi da parte di guardie ed altri detenuti, avvelenamenti da assunzione di gas delle bombolette o psicofarmaci… sono autentici delitti silenziosi. Soltanto raramente, si riesce a dare a questi casi il nome naturale: omicidi.
 
Storie di colombe, corvi, lupi, cicale e mastini
NEL GERGO carcerario, si chiamano “colombe”. Sono quelli che muoiono di morte violenta. Ogni detenuto sa di non essere mai sicuro nella propria cella, anche quando la condivide con gente di rispetto. Le galere sono sature spugne di disperazione. Assorbono gli istinti, strizzano i corpi dei condannati. Ai piani bassi si aggirano larve umane in decomposizione psichica, imbottite di farmaci; tra i corridoi viaggiano topi grossi grossi. Nei film, come nella realtà, i detenuti spesso li adottano. Preferiscono i roditori veri a quelli con le sembianze umane, che compongono le “squadrette” pronte a “ svezzare” qualche malcapitato. Uomini pagati dallo Stato, incappucciati, ringhianti ed odiosi, entrano di notte, picchiano, gettano tutto in aria e se ne vanno.
È un ambiente pieno di animali pericolosi. “Lupi, corvi, cicale e mastini”! Rispettivamente: killer, ufficiali giudiziari, spie e guardie violente. Si impara presto a masticare il linguaggio della giungla senza colori. Se non fai in fretta ad “accavallarti”, rischi di imbatterti in qualche banda di “ balordi”: gente che sguazza nei circuiti della mala. Allora sono guai. Ma se riesci a dimostrare di essere solo un “turista”, uno di passaggio, e non fai l’infame, è difficile che gli altri ti manchino di rispetto. Anzi, a volte nascono amicizie sincere ed eterne. Il peggiore di tutti i nemici, lo hai dentro. È la tua salute fisica. È il tuo equilibrio mentale. Vietato ammalarsi. Non c’è un medico disposto a prendere sul serio i tuoi malanni. Inutile chiedere, invocare, lagnarsi. Le lamentele danno fastidio ai tuoi compagni di cella. Imparerai a soffrire in silenzio. E se proprio non riesci a risolvere i tuoi problemi, qual è il problema? Ti puoi sempre suicidare.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 25 ottobre 2003

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