«Perché non ci piace la riforma»

TREDICI lunghi anni di lavoro. Una lotta senza tregua, nel campo del disagio sociale e della dispersione scolastica. Quelli dell’associazione “San Pancrazio” non amano microfoni e riflettori. Preferiscono i piccoli atti concreti, che per la loro stessa natura emotiva, sentimentale, restano confinati in una sfera comunitaria, quasi intima.
Ma i cambiamenti che stanno avvenendo nel sistema scolastico, impongono una presa di posizione. Chi opera sul campo ne è consapevole. Ed è per questo motivo che oggi pomeriggio, alle 17, nella Casa delle Culture, la “San Pancrazio” promuoverà un incontro su “La riforma dell’istruzione e il disagio”.
Tra i relatori della serata, anche Piero Fantozzi, docente di Sociologia politica dell’Università della Calabria, nonché presidente dell’associazione.
Professore, qual è il rapporto tra l’esperienza che il suo gruppo porta avanti ed il mondo della scuola?
“Ci occupiamo dei ragazzi che vivono situazioni di disagio, e soprattutto di quelli che abitano nel centro storico. Verso la fine degli anni Ottanta, ci siamo chiesti perché mai la scuola non fosse penetrata significativamente nella loro vita. In verità, veniva vista come un’opportunità non per loro, ma per gli altri. A quel punto abbiamo deciso di rapportarci al mondo della scuola, perché solo attraverso esso era possibile accompagnare questi giovani”.
Quali sono i problemi principali che un ragazzo di quartiere incontra tra i banchi?
“I nostri ragazzi hanno prevalentemente due categorie di problemi. Vengono considerati marginali, perché sono “muti”, oppure “iperattivi”. Entrambe queste condizioni, apparentemente caratteriali, sono in realtà di difesa, perché mancano loro i requisiti fondamentali per potersi relazionare su contenuti scolastici”.
Può illustrare le caratteristiche di tali comportamenti?
“Attraverso la condizione di rifiuto, contestazione, caos e provocazione, si tende a nascondere il fatto che non si sa leggere o scrivere. Mentre il silenzioso è colui che non ha il coraggio di relazionarsi in senso pieno. Allora, lavorando su questi aspetti, abbiamo capito che bisognava portare i ragazzi alla naturalità del comportamento, e quindi sorreggerli dal punto di vista fondamentale dei contenuti. Quando siamo arrivati noi, venivano sempre bocciati. Frequentavano le elementari per otto anni, le medie in cinque”.
Oggi, in generale, è ancora così?
“No. L’elemento della selezione rimane, ma è molto relativo. L’aspetto più grave è che vengono pure promossi, ma non viene dato loro il contenuto essenziale che poi permette di continuare. Escono dalle elementari e non sanno leggere. Allora, non sono selezionati dagli altri, ma si autoselezionano, perché non hanno il coraggio di continuare”.
 E le famiglie?
“Purtroppo non costituiscono un accompagnamento adeguato, perché non hanno mai potuto avere nella scuola un’opportunità vera. Di conseguenza, vedono in essa un’opportunità altrui. Quando i figli decidono di mollare, i genitori non li incoraggiano”.
Qual è stato il vostro rapporto con l’istituzione scolastica e con i docenti?
“La situazione non è del tutto negativa. Tuttavia, complessivamente, strutturalmente, è a dir poco disastrosa. E proprio nel modo in cui la scuola è costruita. Nella logica con cui si fanno i programmi. Spesso si dice che bisogna partire dai ragazzi, ma poi restano semplici parole”.
Forse c’è bisogno di pensare ad un’altra scuola?
“Sì. Io so bene che è difficilissimo insegnare ai ragazzi che vengono dalla strada. Però, se li si segue nel percorso, la loro reazione ed il recupero sono straordinari. Noi abbiamo accompagnato giovani che adesso stanno frequentando l’università. E questo fatto in certe zone del centro storico non è mai accaduto prima. Si è riusciti a comunicare con le loro famiglie. La scuola è un’opportunità di crescita civile, personale, sociale. Il punto nodale è proprio lì. Il problema della scuola non inizia dentro, bensì nella capacità di legare l’interno con l’esterno. Bisogna costruire l’organizzazione,  a partire dai bisogni più forti e socialmente evidenti. Il nostro lavoro è creare delle reti con le persone, per orientare le istituzioni, gli enti locali, verso un cammino di questo tipo”.
Dopo la riforma, cosa ne sarà dell’istruzione pubblica?
“Lo svuotamento della scuola pubblica è un rischio serio. È un peccato, perché rappresenta l’unica vera possibilità concreta per i poveri. C’è una falsità di fondo nel meccanismo della privatizzazione. La libertà, per gli altri, non può arrivare togliendo le opportunità a chi già non le ha mai avute. Noi registriamo la condizione di difficoltà per i ragazzi “marginali”, ma in realtà riguarda la scuola statale nel suo complesso. Siamo contrari a questa riforma, perché ci rendiamo conto che cerca di minare anche le nostre speranze”.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 10 dicembre 2002

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