Ho pianto, salvo solo Stefano Fiore

COSENZA, Claudio Dionesalvi insegna nelle scuole medie, dopo una formazione umanistica in quel di Firenze. Già direttore di Tam Tam e Segnali di Fumo, è uno dei supporter rossoblù più conosciuti in città per la sua creatività e il suo attivismo sociale. Con lui rivediamo il film della stagione appena conclusa.
Un anno orribile per il calcio cosentino. Lei come lo ha vissuto?
«Male, malissimo. M’è sembrato di rivivere situazioni che speravo facessero parte ormai del bagaglio dei ricordi peggiori. L’ultima partita, nel giorno della retrocessione, sono uscito dallo stadio piangendo. È la terza volta che mi capita in 15 anni, ed è significativo che in due casi siamo retrocessi per motivazioni slegate dal calcio giocato».
Se dovesse individuare una causa o delle cause all’esito del torneo e alla grave crisi societaria in che cosa in che cosa la individuerebbe?
«Per qualche anno ci è sembrato che finalmente il Cosenza potesse tornare a rappresentare  un bene comune, con una programmazione societaria seria. Soprattutto, che fosse di nuovo salvo il principio per il quale ogni tifoso va allo stadio: l’imprevedibilità del risultato finale, che non può essere falsato da mancati pagamenti di tasse e stipendi. Poi il Cosenza è ridiventato un affare di famiglia. E troppe questioni sociali, politiche e culturali, in questa città, sono legate ai destini di famiglie più o meno potenti».
Cosa salva di questa stagione?
«Solo l’impegno del capitano Stefano Fiore e dei giocatori che hanno lavorato senza stipendio».
Polemiche velenose, divisioni tra i dirigenti e contrapposizioni varie. Che idea si è fatto?
«Oggi, come nel 2003, il Cosenza è vittima di un conflitto tra interessi contrapposti. Non dimentichiamo che anche all’epoca i problemi iniziarono quando le parti in causa scatenarono reciproche rappresaglie nelle aule dei tribunali. Formulo un esempio: se io e il mio vicino di casa cominciamo a farci dispetti, e un bel giorno decidiamo di denunciarci a vicenda, poi non ci possiamo lamentare se una mattina entrambi ci ritroviamo i carabinieri in casa…».
È stato l’anno della tessera del tifoso. E lo stadio San Vito si è svuotato. Come mai?
«In generale, la crisi di presenze allo stadio non è solo un problema cosentino. C’è una comprensibile disaffezione. Il calcio è uno sport nato per consentire un’interazione tra pubblico ed evento giocato. Oggi viviamo un surrogato di esistenza, nella comunicazione e negli affetti. Purtroppo il football non poteva essere immune da questo fenomeno. Quindi non vedo perché la gente dovrebbe continuare ad affollare gli spalti! Anche a me di recente è capitato di dover vedere una partita del Cosenza in streaming attraverso il mio PC portatile. È stato angoscioso. Ma me ne sono fatto una ragione. A me e ad almeno altre 300 persone, in questa città, è stato impedito di essere ultrà. Siamo cioè stati privati della libertà. Il governo ha adottato leggi speciali in deroga allo stato di diritto. Ci hanno vietato di portare le bandiere, i fumogeni, gli striscioni, gli stendardi, addirittura di indossare certe magliette. Ci hanno persino impedito di intonare alcuni cori. Alla fine, è arrivata la tessera che in realtà è un bancomat. Le banche hanno già combinato tanti guai nell’economia globale. Non capisco come adesso possano dare una mano al calcio. Non la acquisterei mai, ma se anche volessi farlo, mi sarebbe vietato sulla base di banali e antichi pregiudizi. Ecco perché rimango ultrà, ma solo dentro di me. Per la prima volta, dopo 25 anni, quest’anno non ho seguito il Cosenza in trasferta.
Il ruolo delle istituzioni e dell’imprenditoria cittadina è stato soddisfacente a suo avviso?
«Nel periodo difficile in cui ci troviamo, le istituzioni farebbero bene ad occuparsi d’altro, anche per evitare di illudere ancora tanti tifosi. A Cosenza non c’è più una borghesia illuminata, cioè gente capace di rischiare pur di trarre profitto dai propri investimenti. In giro vedo solo pescecani che si nutrono del lavoro di tanti ragazzi precari e succhiano quantità impressionanti di denaro pubblico. Ma in cambio non producono niente. Chi dunque potrebbe investire nel Cosenza? Ogni tanto hanno pure la faccia tosta di apparire in TV a parlare di calcio. Un minuto prima tergiversano, raccontano bufale. E un minuto dopo vedi passare gli spot che pubblicizzano le loro attività. Sarebbe vergognoso se non fosse già grottesco».
Se il Cosenza non riuscisse a iscriversi a questo campionato da che cosa si dovrebbe ripartire e da chi?
«L’importante è che non si riparta proprio dai soggetti che lo hanno fatto morire. È interessante anche l’esperimento della Curva Nord: iscrivere una squadra a un campionato minore. Ma nutro grande rispetto nei confronti dei tanti Cosentini che credono ancora nel sogno di vedere un Cosenza dignitoso, sano, purché sia ripulito una volta per tutte da certe ambigue presenze».
Alessandro Russo
il Quotidiano, 29 giugno 2011

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