Un antico dialetto ricomincia a vivere nei versi di Araniti

La nebbia che avvolge il tempo restituisce frammenti di una cultura perduta, cancellata dalla storia. Il dialetto dei “quadarari” delle serre cosentine, antichi maestri artigiani attivi nella zona di Dipignano, rivive nella poesia di Franco Araniti, poeta calabrese non nuovo a questo tipo di operazioni letterarie. “U cunta cu campa” (Lo racconta chi vive) è il titolo di un volume edito da “Legenda” che raccoglie versi scritti in dialetto della vallata del Gallico e in appendice propone tre poesia in “ammascante”, gergo dei calderai dipignanesi.
I maestri del rame amavano comunicare con «una propria comunicazione gergale». Una forma di trasmissione orale, sviluppatasi sulle rive del Busento e della Jassa. È stato John Trumper, docente di glottologia all’università della Calabria, a recuperare le tracce di questa lingua per iniziati, codificandola in un dizionario.
Araniti ha utilizzato gli strumenti offerti dal filologo per restituire la vita ad un repertorio lessicale sommerso. Il paragone tra l’esperimento attuato dallo scrittore reggino e l’utopia degli scienziati che tentano di far resuscitare animali estinti, sorge spontaneo. Ad Araniti l’operazione è riuscita.
Riemergono i suoni ruvidi di una “parlata” schietta, tendente alla rappresentazione degli oggetti, intrisa di musicalità. I contenuti confermano la formazione materialistica dello scrittore, da sempre attento alla sostanza tematica della terra d’origine, legata ai bisogni di un’esistenza priva di voli fantastici e, al contrario, concentrata sulle necessità dettate dal vivere quotidiano. Araniti canta l’amore e l’odio, i sensi e la disperazione, la morte ed il riscatto, le inquietudini di un’umanità consapevole del fatto che «’A rriulizza mmuccia ‘u ‘sciatu accussi nan si capisci si sanizzu sugnu o sugnu malatu». (La liquirizia nasconde il fiato così non si capisce se sono sano o sono ammalato). Ed è lo stesso Trumper; nel mettere in guardia il lettore dai rischi connessi all’uso del dialetto – restare impantanati in una visione archeologica e nostalgica di un mondo che non c’è mai stato – a riconoscere nel percorso di Araniti una traccia molto «personale».
Una qualità che solo il poeta può possedere, in una società di replicanti e “campanari” (sordi).
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 19 ottobre 1999

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