Bimbi esclusi dalla mensa a Lodi: come i leghisti nemmeno gli ‘ndranghetisti

Quando mi mandarono a insegnare in quella scuola, nel paesino c’era la guerra di mafia. Qualcuno dei colleghi mi mormorò di stare attento: “È meglio se a mensa i figli di quelli e di quegli altri… non si siedono insieme. Non si sa mai quel che può succedere”. Me ne fregai altamente. Non solo quando ero in servizio nel refettorio facevo in modo che si sedessero vicini, ma anche in occasione delle visite guidate, capitava che viaggiassero sullo stesso pullman. E socializzavano. Nessuno dei loro genitori è mai venuto a minacciarmi. Anzi, qualche volta ho anche incrociato i loro silenziosi sguardi di consenso. Non racconto questo episodio per mitizzare la ‘ndrangheta. Lascio volentieri a certi supermagistrati il privilegio di farlo. Tuttavia, in mia presenza, i figli di quelli che sono stati giudicati mafiosi dai tribunali dello Stato, hanno quasi sempre manifestato grande rispetto nei confronti dei loro coetanei più deboli o di quelli provenienti da mondi contrapposti. So bene che può essere proprio questa l’origine del problema: l’accumulazione originaria del potere, conseguente alla protezione offerta. Però così vanno le cose in quest’angolo di mondo: per una ragione o per un’altra, i figli degli ‘ndranghetisti, quando sono ancora giovanissimi, mangiano a mensa con tutti, senza distinzioni. I figli dei leghisti no!
Carmelina era una collega che ti aspettava sempre nei corridoi per fare colletta. Il suo cognome non lo rivelo. Non voleva pubblicità. Non le piacerebbe riceverla neanche adesso. Con i soldi che raccoglieva, coprivamo i costi delle gite scolastiche per i ragazzi provenienti da situazioni familiari difficili, compravamo i libri per quelli che non se li potevano permettere, a volte lei andava a fare la spesa e la portava ai genitori indigenti. Capitava pure che pagavamo la loro bolletta della luce, quando gliela tagliavano. Mai fatto differenze tra alunni italiani e migranti! Se non avevano i soldi per comprare il ticket della mensa, provvedevamo anche a quello. Carmelina purtroppo non c’è più, ma ancora lo facciamo. M’è capitato pure di vedere i nostri collaboratori ATA rinunciare al proprio pasto e darlo alle ragazze e ai ragazzi, quando dimenticano di acquistare in tempo il tagliando.
Ecco perché adesso mi viene la nausea pensando al trattamento riservato ai bambini migranti delle scuole di Lodi, esclusi dalle mense. Risulta davvero difficile prendere sul serio la scusa escogitata per coprire l’intento discriminatorio. “Devono consegnare documenti aggiuntivi comprovanti il loro stato di povertà, richiedendoli nei rispettivi Paesi di provenienza”. Come se in Somalia e Nigeria, tanto per fare un paio di esempi, fosse possibile richiederli, questi maledetti documenti. Nella tecnologica Italia la burocrazia impiega mesi, a volte anni, per rispondere alle istanze dei cittadini. Spesso neanche risponde alla posta certificata! Ogni anno a noi insegnanti il Ministero impone la presentazione delle domande per concederci gli assegni familiari: 40 euro mensili per un figlio. Intanto, ce li sospende. E per riaccreditarceli impiega un minimo di cinque mesi nell’effettuare le opportune verifiche sulle nostre entrate effettive. Se noi dobbiamo aspettare cinque mesi per ottenere la documentazione, quanti anni dovrebbe attendere una famiglia migrante residente nel territorio italiano? Nel frattempo, i suoi figli non potrebbero accedere alla mensa scolastica? È chiaro dunque che questo provvedimento è discriminante, punta a umiliare le persone e a rafforzare il consenso dell’elettorato xenofobo. Sono quelle facce da fumetto di Dylan Dog, che in TV abbiamo visto inneggiare all’egoismo istituzionalizzato. Ma com’è triste constatare che a circa un secolo e mezzo dal tempo in cui Collodi e De Amicis concepirono i loro romanzi, ci sono ancora in giro scuole che rivolgono agli alunni le antiche domande: “Di chi sei figlio? Da dove vieni? Che lavoro fa tuo padre?”
Claudio Dionesalvi

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