Nata e cresciuta in una palafitta

Unione europea, provincia italiana, Cosenza, anno 2000, a poche centinaia di metri dalle passerelle del teatro Rendano. Nel punto esatto in cui mangiavano i porci, dorme una bambina. Natascia riposa con un respiro affannoso. Non si accorge che l’obiettivo della macchina fotografica la sta inquadrando. Di cognome fa Magurno ed ha solo un anno e mezzo. Non è sola. Ha un fratello e due sorelle. Vive in una palafitta, a dieci metri in linea d’aria dal torrente Jassa, sotto il ponte di Mancini. È  malata di una brutta bronchite, provocata dal freddo. Mamma Teresa le canta una ninna nanna, che nell’aria prende forma, tanto è umida quella stanza priva di finestre, buia e tetra, in cui vive e dorme da 20 anni una famiglia di sei persone. “E meno male che abbiamo questo tetto, altrimenti dormiremmo in macchina”, dichiara la signora. Prima di diventare una casa, la palafitta sulla Jassa era un porcile. Adesso è un nido accogliente. Un appartamentino niente male. C’è solo un piccolo problema: quando fuori piove, dentro l’acqua arriva alla caviglia. I servizi igienici funzionano in modo molto originale. Per andare di corpo bisogna stare in piedi, perché tra il bordo del wc e la parete lo spazio è inesistente. “Non si preoccupi signora. Lei avrà una casa”, avrebbe detto la dottoressa Pellicori, responsabile dell’ufficio comunale per i Servizi Sociali, al termine di un sopralluogo effettuato da vigili urbani, unità di crisi, Asl, reparti speciali e truppe corazzate. Eppure, ancora oggi in casa Magurno, ogni sera, prima di andare a letto, per indossare il pigiama bisogna fare a turno. La povertà non cancella pudore e dignità. Quando si spogliano le ragazze, si allontana il capofamiglia. Poi è la volta del fratello maggiore, e allora mamma esce dalla stanza.
A Cosenza, nel 2000. Ninna nanna per Natascia. Lei dorme, ma papà è in mezzo ad una strada. Non è retorica metafora. Il signor Magurno nella vita fa il disoccupato. E non rientra nella vasta schiera degli iscritti all’ufficio di collocamento, che poi un lavoro nero, grigio, precario o autonomo, comunque ce l’hanno. Il padre di Natascia si alza di buon mattino, infila due cassette di arance in una vecchia macchina e si porta sul ciglio della strada, in viale della Repubblica. Apre il cofano e aspetta che qualcuno si fermi. Reddito medio giornaliero: lire 20mila. Nessuno ha trovato il tempo e la voglia di sistemare quest’uomo nelle cooperative. In compenso, però, il nuovo direttore dell’Aterp ha annunciato: “Daremo una casa a chi ne ha bisogno”. Peccato che i Magurno non siano neanche entrati nella graduatoria per gli alloggi popolari.
La signora Teresa spiega: “Nel 1984 presentammo la domanda. Ma al Comune mi hanno detto che siccome nel ’95 non ho fatto ricorso, abbiamo perso il diritto. Il problema è che quando bisogna guadagnarsi da vivere, non c’è mai tempo per andare in giro negli uffici”. Quindi, punteggio zero: niente casa. L’assessore Morrone è attento ai problemi del disagio sociale. Anch’egli, tempo fa, avrebbe promesso un tetto alla famiglia che vive sull’argine destro della Jassa. Ma ancora niente. Pare che adesso spetti ad altre autorità il compito di intervenire sull’emergenza casa. E per il momento, a denunciare la drammatica situazione dei Magurno è Amrì, giovane immigrato marocchino. Loro lo hanno ospitato. Lui cerca di ricambiare. Tra i poveri, sia l’egoismo che la solidarietà non sono fenomeni cartacei. Esistono veramente. “Non si preoccupi signora Magurno, un giorno anche lei avrà una casa”. Forse. Chissà.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 4 marzo 2000

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