L’inferno kafkiano della carcerazione

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L’inquisizione cinquecentesca contro i Valdesi di Guardia e un dentista sinistrorso che cerca di cavare «il giudizio» al paziente parlando di politica e movimenti chiudono e aprono il diario di Claudio Dionesalvi “Mammagialla” edito da Rubbettino. Mammagialla è il quartiere del carcere di Viterbo dove Dionesalvi è stato portato dopo la tappa a Trani.
Non ci sono mezzi termini: la cassazione nell’esercizio della giustizia usa metodi medievali come le torture per «streghe, sovversivi e delinquenti».
L’avvocato Giuseppe Mazzotta, nella prefazione illuminata dalla stessa rotondità ciceroniana del suo eloquio (non a caso apre citando Seneca), preferisce parlare di «probabili innocenti», in luogo di presunti colpevoli e usa gli stessi toni: «carcere nuovo strumento di tortura».
Sofferenze assimilate, nel racconto, a quelle per «un giudizio che non vuole mollarmi», un dente spuntato durante la reclusione. Con una felice trovata letteraria, Dionesalvi, torna a ritroso dal giorno dell’estrazione (30 novembre) per ricostruire, giorno per giorno, la vicenda: dall’alba del 15 novembre alla liberazione, il 22 (la manifestazione dei 60mila è “bypassata”, anche se citata più d’una volta). La menzione del giorno e dell’ora ad inizio capitolo ricorda il crescendo de “L’odio (tecnica simile – efficacissima – era stata usata anche dai registi del video “Solo limoni” sul G8 genovese), anche se in più ci sono dei versetti che introducono la narrazione: a Franco Dionesalvi (è sua anche la postfazione, con la prosa poetica a cui ci ha abituati, sospesa tra le lucide – e spietate – analisi sui massimi sistemi e i ricordi personali), si affiancano tra gli altri Giovanni Lindo Ferretti-Cccp, Militant A-Assalti frontali, Leopardi, Kafka, Luther Blissett, Antoin de Saint-Eupéry, Battiato, Renato Curcio e Mario Dionesalvi.
Un «campanello/tromba del giudizio» annuncia l’inizio di una vicenda che manterrà tratti lisergici e da psicodramma kafkiano. Il 15 novembre è il giorno del «compleanno di Loredana», e a lei va il primo pensiero nel momento dell’arresto; poi agli alunni di Lauropoli («chi glielo spiega perché sono finito in galera?»). Le accuse sono anacronistiche (« cospiratore come Gramsci? Mia nonna me lo aveva detto che sarei arrivato lontano») e la vicenda si fa subito mediatica («ormai sono sul palcoscenico, tanto vale tenersi allegri»).
Inizia lo spettacolo: i «Derrick e i Colombo», gli «zerozerosette» e le «guardie imperiali dell’Inquisizione» si muovono in atmosfere kubrickiane. Il fotografo della questura che «da anni colleziona immagini di movimento» (e non in movimento…) è in una galleria di volti noti della Cosenza antagonista: Giucas, Rafele, Giovannino, Annetta, Arancino, Padre Fedele e lo “zapatista” monsignor Agostino) e “maschere” realistiche come Pinotto il poliziotto, Loris, gli amici di cella Beniamino e Marione, «Saatùri» il silano contro, il frate Antonio in carcere e quelli dell’Oasi francescana Arturo e Alessandro. Lo slang di Dionesalvi è familiare ai cosentini cresciuti tra la curva, il Gramna, piazza Kennedy e il bar Mazzini («in paranoia, ‘ntrippato nu guagliuni togo»): altro elemento di empatia.
La narrazione fa spazio agli spunti giornalistici: Dionesalvi ricorda il “Teorema dei Ros” evocato da d’Avanzo nella prima di Repubblica già il  16 novembre. «Riecco le ombre di Genova»: c’è il caso dei gas al cesio, e una lettera scritta a Repubblica – ma mai pubblicata – in cui Dionesalvi, a Genova in quei giorni, motivava lo sdegno dei giornalisti col solo fatto di aver subito, loro stessi, le violenza per la prima volta in prima persona. Parentesi felici sono quelle della bellissima favola del ragno e delle lucertole, dell’elenco delle carceri e delle tante «Istituzioni totali», dove ospedale e rianimazione («nessuno può uscire di lì») sono abitate dallo spettro della morte. Pagine nelle quali Dionesalvi piazza qualche chicca da cronista: la teoria dei corridoi delle carceri studiati per diminuire gradualmente la percezione visiva, l’indicazione beffarda «via Popilia 17» nelle lettere mandate ai detenuti cosentini, e una fenomenologia delle bande del taglierino. Poi incastona pagine poetiche come la «dichiarazione d’amore a Cosenza», riflessioni militanti a cui la solitudine della cella inevitabilmente conduce. Intanto la vicenda mantiene due profili: la spettacolarizzazione mediatica/strumentalizzazione politica (fino alla famosa presunta «abiura») e le crescenti avvisaglie della mobilitazione che a «mamma Cosenza» sta crescendo (un «vento che parte dal basso e scuote tutta la società, in maniera trasversale»): i “segnali” arrivano già nel carcere di Trani, la «corrosiva nostalgia dei ragazzi» della II A di Lauropoli torna.
Ma le celle sono anche il luogo dell’alienazione e dell’assenza di privacy (un capitolo è introdotto da un brano di “Arancia meccanica”), dei ragazzi che si sballano con il gas. Nel passaggio da Trani a Viterbo, domenica 17 novembre, i detenuti ci guadagnano una tv e vedono 90° minuto (è la domenica in cui al cinema Italia si svolge la mega assemblea con don Vitaliano e Casarini). La liberazione? Per Claudio l’ultrà è come il gol di Marulla a Pescara nello spareggio salvezza del ’92 contro la Salernitana. L’accoglienza allo svincolo di Cosenza sud dà i brividi. Il giorno dopo ci sarà l’abbraccio del corteo.
Eugenio Furia
Il Domani, 31 maggio 2003

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