Cosa significa “Cusenza”

Le poesie in dialetto di Sergio Crocco meritano una chiacchierata con un druido del linguaggio. È l’occasione per guardare Cosenza Vecchia attraverso i vetri di una delle più affascinanti finestre sul fiume Crati; quella di John Trumper, gallese, professore ordinario di Glottologia, autore d’innumerevoli pubblicazioni. Decano dell’università, insegna ad Arcavacata dall’80. Da qualche anno vive nel centro storico della città.
Professore, lei conosce il nostro dialetto meglio di noi…
“I primi a insegnarmi il dialetto veramente erano i contadini di Dipignano e della valle del Crati. Girando, nello spazio di vent’anni, ho preso pezzi di qua e di là. Oggi, non è il dialetto che si perde, ma un certo tipo di rapporto con la natura. Ricordo vecchi contadini. Li porti in un campo, in un bosco, e loro non hanno problemi. Chiedi: “Ma chid è sta erva? Chi ssu sti juri”. E quelli, nonostante non abbiano mai visto quella pianta o quel fiore, non si imbarazzano. Rispondono: “è u frat’ i chissu”. E ti fanno riferimento a un’altra pianta, meglio conosciuta. Hanno una visione del mondo in cui tutto va a posto. La cultura moderna, invece, è: “chid è chiss? Buh, un’u sacciu””.
Lei ha letto le poesie di Sergio Crocco. Che valore ha, oggi, scrivere in dialetto?
“No, non le ho ancora lette. Ho dato solo un’occhiata. Non so esattamente cosa stia cercando. A volte mi sembra la piazza Kennedy dei ragazzi che inventano il dialetto, che in realtà non è tale, perché intriso di italiano. È una cosa informe, quasi gergale. Il dialetto non è gergo. Sì, ci sono i gerghi tradizionali calabresi, come l’”ammascante” dei “quadarari”, ma servivano a nascondere i segreti dell’arte, identificarsi tra artigiani”.
Qual è l’aspetto più interessante dei dialetti?
“C’è la proiezione, sul territorio che tu abiti, delle parti del tuo corpo. I “vinedde” della città, le rughe del centro storico o di un paesino, sono le vene del corpo, le rughe della fronte”.
Un’identità inconscia?
“Sì, ma non per questo non sistematica o non programmata. È un’identità millenaria, attraversa numerosi tipi di civiltà”.
Il cosentino presenta suoni caratteristici? Per esempio, quelli contenuti in “Cudduriaddu” (Non esiste un grafema -ndr). Nei paesi circostanti, invece, pronunciano “culluriallu”. Perché?
“Si tratta di quello che noi definiamo “esito di doppia L”, differisce solo se ci si trova a destra o a sinistra del Crati, con delle eccezioni intorno a Luzzi, perché il Crati ha cambiato un po’ il suo corso durante i secoli. La Calabria conosce almeno una dozzina di esiti di “doppia L”. Non è distintivo, perché è presente anche in alcune zone della Sicilia, Puglia, Sardegna, Corsica e in Nord Europa. Persino le lingue indiane ce l’hanno. A Cosenza e dintorni, si è “affricativizzato”.
Allora quali sono i suoni distintivi?
“Sono difficili da vedere. Per esempio devi prendere i vecchi dialetti silani: San Giovanni in Fiore, Acri, Spezzano. Se uno “non del mestiere” mi sente imitare un sangiovannese, non si rende conto che questa è la vera matrice da dove proviene il cosentino. È stata alterata nel tempo, eliminando termini e suoni ritenuti “rozzi””.
Qual è il valore dell’etimologia?
“I greci credevano fosse la cosa vera che si nasconde sotto la parola. Noi non proiettiamo parole, bensì pezzi di società”.
Facciamo un esempio, da dove proviene l’imprecazione “mannaja”?
“Male in(d)e habeas”. Che tu ne abbia male. È latino.
Si dice “Bruzi” o “Bretti”?
“Bretius” per i greci. “Brutius” per i latini”.
 Quali parole ancora in uso nel cosentino derivano dai Bretti?
 “Jévuse” a Cosenza sono le verdure tipiche, ma se vai a Catanzaro diventano “i secri”, dal greco “seutlon”. In latino “holera”. Il bretico doveva avere una forma “helesa”. Ancora: “asulijari”, ascoltare. Vuol dire: sentimi con attenzione. Se uno dice: “asulija”, intende: sto dicendo una cosa seria.
E i nomi dei luoghi?
“Ci sono nomi bretici sovrapposti da latinismi”.
L’occupazione militare dei romani lasciò tracce?
“Certamente. Tutti questi “…ano, …ano” sono terreni amministrati da centurioni: gli storici li chiamano prediali. A Rogliano c’era un tale chiamato “Rubilius”; a Rossano “Roscius”: faccia da rospo; a Fagnano uno di nome “Fanius”. Per bonificare amministrativamente e militarmente il territorio, i romani davano una buonuscita, assegnando delle terre. Del resto, la stessa Popilia era una via militare, di occupazione, controllo e pronto intervento… come avere la digos lungo le strade”.
E il termine “Cosenza”?
“Cossa” nel bretico, ma anche, con qualche variante, nel resto dell’Italia meridionale, ha a che fare con “ceuthmos” e altre forme greche che significano caverne, grotte costruite dentro la roccia. Cosenza doveva intendersi un insieme di habitat realizzati dentro il colle Pancrazio. Gli altri colli sono di evidente origine agricola. “U Trigliu” faceva parte dei Casali. “Tribulum” deriva dalla grande macina, la mola che macinava il grano per la città dei Bretti. Quando i romani arrivano, devono far dimenticare agli sconfitti il fatto che si erano messi contro di loro, dalla parte sbagliata, quella di Annibale. Cambiano il nome della città. Sotto Cosenza c’erano i due fiumi che si congiungevano: “Ecce locum ubi consentiunt flumina”, dove i due fiumi si raggiungano. Che vadano in armonia, come i due popoli, vincitori e vinti. È terminologia tipica di una conquista, una colonizzazione: “Consentia””.
Gergeri?
È interessantissimo. Uno dei pochi risultati dell’occupazione spagnola! La parola araba passa in spagnolo e significa “Sesamo”, che coltivavano vicino al corso d’acqua, in quella zona”.
Tra due o tre secoli, poesie come quelle di Crocco avranno un valore?
“Sì, certamente sociologico e antropologico. Un tentativo di asserire un’identità, ricercarla. Mi chiedo se sia la voglia di recuperare un mondo che aveva più a che fare con la natura, oppure soltanto la ricerca dell’infanzia perduta”.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 29 gennaio 2005

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