Trattati come “scimmie” dalla cupola del caporalato calabrolucano

Duecento braccianti costretti a lavorare nei campi in condizioni disumane, impiegati in turni di lavoro massacranti. Alle «scimmie», come spregiativamente venivano definiti, i loro aguzzini davano da bere l’acqua di un fosso di scolo. Una organizzazione piramidale, una vera cupola dello schiavismo calabrolucano. Un girone dantesco che emerge tra le carte dell’operazione Demetra, coordinata dalla procura di Castrovillari, con l’esecuzione di 60 misure cautelari tra Cosenza e Matera e il sequestro di 14 aziende agricole. Le ipotesi di reato sono associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Da un furgone partito da Montegiordano, diretto in Lucania e fermato a un check-point, ha preso il là un’inchiesta che ha scoperchiato un fiorente business. Nella Piana di Sibari, florida di arance, clementine, pesche e fragole, i raccoglitori venivano pagati una miseria (80 centesimi a cassetta) e sottoposti a trattamenti concentrazionari. Alloggiavano in edifici fatiscenti, spesso in sovrannumero, strutture di fortuna, procurate loro dagli indagati e per abitarvi erano costretti a versare denaro agli stessi caporali.
L’organizzazione malavitosa era così composta: c’erano 16 soggetti, i cosiddetti caporali, vertici del sodalizio con compiti di direzione e controllo dell’illecita attività. Stabilivano le modalità del reclutamento, fissavano le condizioni d’impiego sui campi, trattavano con gli imprenditori-utilizzatori della manodopera, organizzavano i furgoni per il trasporto dei braccianti, tenevano la contabilità e la retribuzione delle giornate di lavoro di ciascun migrante. Poi c’erano gli 8 sub-caporali, con il ruolo di collaboratori diretti dei vertici del sodalizio, le braccia operative nella gestione della manodopera. E infine 22 utilizzatori che, attraverso le aziende agricole da loro gestite, ben 13, e sulla scorta di consolidati rapporti con i vertici dell’organizzazione, impiegavano i braccianti reclutati nei campi e li sottoponevano a condizioni di sfruttamento, lucrando sul loro stato di bisogno.
«Ma queste cazzo di scimmie quando arrivano?», si lamentavano i padroni delle aziende con i caporali. Era un collaudato sistema di fittizie assunzioni che, in ultima analisi, determinava imponenti risparmi fiscali e previdenziali. «Va bene l’attacco al caporalato – ci spiega Peppe Marra, portavoce Usb Calabria – ma non basta. Fino a quando non si attaccherà l’apice della catena di distribuzione che impone prezzi di acquisto superiori ai costi di produzione, sarà impossibile debellare il male». Il caporalato è vivo e sfrutta più che mai questo lembo di meridione. È una lezione per la destra e per i detrattori dell’ultima sanatoria, nonostante le sue criticità. «Ai nostri sportelli – conclude il sindacalista – tra contratti non a norma, permessi in scadenza e categorie non previste dalla regolarizzazione, su 90 domande, 87 non avevano i requisiti».
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 11 giugno 2020

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