Una lapide senza il nome

Riaffiorano racconti e frammenti di un capitolo della recente storia cosentina. Una stagione insanguinata, in cui la città è stata brutalmente segnata da uno scontro durissimo tra le bande che controllavano il territorio. E oggi non sono gli scrittori o i cronisti a ricostruire le vicende di quell’epoca così vicina e così lontana, ma i pentiti. A rompere il silenzio, senza la pretesa di creare clamore o riaccendere i riflettori dello spettacolo, è Pino Luce, fratello di Carmine Luce, che secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sarebbe stato ucciso nel lontano ’89. Nel 1996, la segnalazione di un pentito consentì agli investigatori di recuperare i presunti resti della vittima. “Quel giorno – dice Pino Luce – ho appreso dalla stampa la notizia del ritrovamento di ciò che rimaneva del corpo di mio fratello. Da allora, non ho trovato pace e non mi sono rassegnato. La mia famiglia si mise subito in contatto con il perito, incaricato di effettuare le analisi del Dna su quelle povere ossa. Volevamo essere certi che si trattasse realmente del nostro congiunto, ma una risposta ufficiale non è mai arrivata. A distanza di due anni, la Procura non ci ha ancora confermato che quelli erano i resti di Carmine”.
Pino Luce non si è trincerato dietro il velo delle illusioni. “Sono consapevole della terribile sorte toccata a mio fratello – aggiunge – ma non posso accettare il fatto che le autorità non hanno provveduto a restituirci le sue ossa”. La storia della famiglia Luce è identica a quella di tante altre, che sono state martoriate dal fenomeno della lupara bianca. Negli ultimi anni, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno permesso agli inquirenti il ritrovamento dei cadaveri di persone scomparse per mano delle organizzazioni criminali. Tuttavia, rimangono pesanti ombre sulla veridicità delle affermazioni dei pentiti. “Il fatto di non poter piangere sulla tomba di mio fratello – conclude Pino Luce – rende più insopportabile la sofferenza per la sua perdita. Sono convinto che ogni essere umano ha il diritto di essere sepolto degnamente. I familiari devono poter avere la possibilità di portare almeno un mazzo di fiori sulla sua lapide”.
Carmine Luce, sposato e padre di tre figli, aveva 38 anni quando è stato ucciso e non era mai stato coinvolto in fatti di sangue. L’omicidio, secondo le ricostruzioni avvenute nelle aule del tribunale, sarebbe scaturito da contrasti scoppiati all’interno delle organizzazioni. Nel marzo ’96, i pentiti indicarono alla Procura distrettuale antimafia di Catanzaro il luogo in cui sarebbe stato sotterrato il suo corpo. I vigili del fuoco e la protezione civile setacciarono la zona di “Pagliarello”, a poche centinaia di metri dal bivio principale per San Fili sulla superstrada 107. Dopo una giornata di ricerche, nel terreno vennero ritrovati il teschio e alcuni oggetti personali della vittima, fra cui una scarpa e un bastone. La scomparsa di Carmine Luce era stata denunciata nel giugno del 1989. Pochi giorni dopo, i carabinieri e la polizia ritrovarono sulla montagna di Longobardi la sua macchina, una “Golf”, che era stata data alle fiamme. A dieci anni di distanza, la rassegnazione non ha ancora offuscato la dignità delle persone prigioniere della memoria.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 6 gennaio 1999

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